Amo andare nei musei di arte contemporanea di tutto il mondo. Mi diverte vedere gigantesche orecchie di pelle rosse alla Tate di Londra, foto di uomini che fanno la pipì su una sedia allo Stedelijk di Amsterdam, raffinate costruzioni di sabbia al Moma di New York. Ne traggo un certo godimento anche se fugace. In verità, però, mi emoziona di più constatare che dopo 3.500 anni, i gioielli della tomba di Tutankhamon siano rimasti ineguagliabili per bellezza e fattura. Me li immagino sul petto nudo di quel 13enne faraone d'Egitto o mentre siede sul suo trono tutto rivestito d'oro oppure mentre cammina a fianco della moglie con le mani rivolte verso l'esterno, come da iconografia classica. E poi mi incuriosisce sapere chi abbia scelto di mettere proprio quei gioielli nella tomba, la moglie o la madre?, e se abbiano veramente creduto che lui avrebbe avuto la possibilità di indossarli di nuovo. E ancora vedo, dopo migliaia di anni, la gioia incontenibile di Carter, l'archeologo che ha scoperto il sarcofago con tutti i suoi tesori. E la felicità e l'orgoglio del direttore del museo egizio nell'esporli. Insomma, mi faccio ogni volta un piccolo viaggio mentale.
Con le opere di arte contemporanea, tutto questo non è possibile. Sono oggetti artistici nati per essere esposti nei musei, e dove altrimenti? Metto la sabbia nel salotto poi entra la donna delle pulizie e butta via tutto. Per non parlare di un water o di un mobile di stracci (vedi Maxxi di Roma). Oggetti senza storia. Senza nessuno che abbia fatto sacrifici per acquistarli ed esporli nel salotto per vantarsene con gli amici. Sono “idee”: aggressive, divertenti, spiazzanti. Provocazioni per suscitare scandali o cercare complicità. Ed è un gioco al quale mi presto con piacere. Consapevole che qualcuno, non un raffinato critico d'arte ma un esperto di marketing , ha fatto un lavoro preliminare per me. Ha deciso che quel giovane strano, quell'artista, poteva sfondare a livello di comunicazione, che la sua presentazione era efficace, che con il giusto packaging, la pubblicazione in catalogo, la mostra in quella galleria molto chic e ben frequentata, poteva diventare un “nome”. Infatti io a questi eventi ci vado, a volte copio le idee e le realizzo con il mio bimbo di 6 anni. Potrebbe sembrare svilente nei riguardi dell'artista ma non vuole esserlo, in milioni hanno ricopiato la Gioconda, io mi accontento dei quadri fatti con i tappi della Guinnes.
Adesso però c'è un libro che scrive tutte queste cose senza pudori e anzi propone un' inversione di rotta: “responsabilizzare tutti: il pubblico, che deve trovare un rapporto più diretto e autentico con l'opera, e l'artista, che deve confrontarsi con le dinamiche sociali. E questa fatica del lavoro artistico deve trovare un corrispettivo nel rigore e nella profondità del lavoro critico e curatoriale”. Si chiama “L'arte fuori di sè” di Balzola, Rosa. Ve lo consiglio da madre. Si, perché nel libro c'è una sorta di manifesto per l'età post-tecnologica. Si parla di artisti plurali, quelli che agiscono in una rete di relazioni, spesso digitali. Persone abituate a far dialogare diverse percezioni del reale e del virtuale, come i nostri figli appunto: i “nativi digitali”. Voglio essere pronta anche per questo. Ve ne parlerò ancora...