"Mi sentivo solo e depresso e mi sono messo a fissare il muro. Dal mio punto di vista, è l'unica cosa che si possa fare oggi senza tv, pc o cellulare". Così termina, in maniera banalmente drammatica l’articolo di Repubblica sulla “sindrome da vuoto digitale” in cui sono stati resi noti i risultati di un test su 1000 studenti universitari di tutto il mondo lasciati senza tv, telefono o pc per 24 ore. La sensazione è stata di solitudine, senso del nulla, privazione fisica. L'analisi è interessante ma non ci sorprende minimamente. Qualsiasi privazione ci mette in uno stato di prostrazione.
Una concorrente di Uman, un reality-tamagochi di Italia Uno, Ramona, è stata malissimo perché non le è stato consentito di fare la doccia per 4 giorni. Un'altra , Veronica, ha avuto una crisi di nervi per la mancanza di sigarette.
Un'altra ancora, Elena, è quasi scappata perché era stata privata dei trucchi ma nessuno ha parlato di “sindrome da vuoto cosmetico”. Eppure anche questa definizione potrebbe avere un suo certo appeal mediatico Oggi solo quelli che non sono nativi digitali parlano di comunità virtuali. Per i ragazzi nati e cresciuti con un computer sempre connesso distinguere gli amici reali da quelli virtuali è sempre più difficile e soprattutto non rilevante. Si tratta di relazioni. Che siano affettive, lavorative, ludiche o legate ad interessi in comune, sono sempre estremamente “vere”. Il moderno paesaggio antropologico, determinato dai nuovi media, ha creato usi e costumi sociali completamente diversi rispetto al passato e ha generato nuovi bisogni. Tra questi c'è il bisogno di essere interconnessi, di partecipare ad una sorta di intelligenza connettiva, che è fatta di saperi ed esperienze messi in comune ma anche di emozioni condivise. Sapere che si può contattare l'amico via messenger per fargli sapere che si è tristi o voler convincere i propri amici tramite facebook a votare no al referendum non vuole certo significare che si hanno competenze tecnologiche avanzate. Vuole dire semmai che è cambiato il nostro modo di pensare, che abbiamo più voglia di condividere, di cercare un confronto, di avere un riscontro. Vogliamo far parte della Rete. Scardinare improvvisamente questi riti di comunione e bloccare i flussi di informazione a cui siamo abituati genera certamente una sorta di straniamento e di malessere. Ma continuerei ad associare il termine “sindrome” ad un quadro sintomatologico diverso, magari legato a malattie più serie. Io preferisco l'espressione originale dell'esperimento: “the world unplugged” che sa più di spiaggia e chitarra classica.
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